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Dalle antiche e leggendarie dinastie si sono originate le attuali popolazioni presenti in Russia, Mongolia, Cina, ecc. Nei territori della steppa rimangono oggi solo poche etnie che mantengono ancora oggi antichi stili di vita. Gli Yi vivono nel sudovest della Cina, nelle province dello Yunnan, del Sichuan, del Guizhou e dello Guangxi e sono oggi circa 6 milioni e mezzo. La loro terra non consente di insediarsi stabilmente: gli Yi sono un popolo nomade che crea i propri villaggi itineranti soprattutto intorno alle oasi o ai laghi che punteggiano il territorio. Il centro della vita della tribù è la tenda. Chiamata yurta, essa è una cupola tonda. Le pareti diritte sono fatte d’intelaiature di asticelle, tenute insieme con strisce di cuoio. Essendo gli Yi nomadi, l’intera yurta è smontabile e portatile. Quando è smontata (occorrono circa due ore), la yurta può essere caricata su tre cammelli o quattro cavalli. Arrivando ad un nuovo campo, la yurta può essere montata in tre ore da due persone. È solida, capace di resistere a forti venti e persino ad una tigre sul tetto. La yurta non è la sola cosa importante della vita nomade. I cavalieri delle steppe sono pastori e cacciatori e il cavallo è vitale non solo per essere cavalcato. Il latte delle cavalle, trasformato in cagliata, in polvere, fermentato o semplice, è un cibo importante insieme alla carne stessa. La pelle dell’animale è inoltre trasformata in stivali di pelle, sacche, ciotole, borse; servono per la guerra, e misurano parte della ricchezza di un uomo. I cavalli non sono gli unici animali allevati dalle tribù. Pecore, vacche e buoi sono comuni in tutta la steppa. I cammelli sono usati particolarmente vicino alle regioni più aride. La vita di ogni singola tribù Yi è organizzata intorno al capo-tribù detto khahan. In generale, egli esercita la propria autorità solo all’interno della propria tribù, ma, eccezionalmente, può unire molte tribù attraverso le conquiste e la diplomazia. Altre tribù ancora possono aggregarsi spontaneamente sotto il suo governo, o per amicizia o per paura, fino a riunire una potente nazione di cavalieri guerrieri.
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I Sami, meglio conosciuti come Lapponi, vivono in un vastissimo territorio che si estende dalle coste della Norvegia fino alla penisola di Kola, in Russia. Vivono in un ambiente particolarmente difficile: nel cuore delle loro terre, a Karesuando in Svezia, la temperatura può scendere fino a 45° sotto zero. I Sami sono pastori nomadi e la loro economia è legata all’allevamento delle renne. Il nomadismo è dovuto alle particolari esigenze alimentari della renna. Questi grandi erbivori si nutrono prevalentemente di licheni a crescita lentissima, quindi necessitano di un territorio molto vasto per sopravvivere. I Lapponi seguono i loro animali mentre si spostano alla ricerca di nuovi pascoli. L’origine dei Sami non è ancora del tutto chiara: secondo alcuni sono europei, mentre secondo altri provengono dall’Asia. Le popolazioni nomadi di Lapponi vivono ancora in tende di pelle di renna simili, nell’aspetto, a quelle dei nativi americani. La cena rappresenta il loro pasto principale. La cucina tradizionale sami si basa essenzialmente sulla carne di renna e sul pesce.
Renne per la vita Le renne sono gli unici animali addomesticati nella tundra. Sono stati alla base dell’economia di molti popoli e ancora oggi, intere famiglie di Lapponi vivono di ciò che offre loro questo grande erbivoro. Dalla renna si ricavano alimenti, pelli, bevande, corna e ossa per la costruzione di utensili. Viene anche utilizzata come mezzo di trasporto. FONTE
Dove il clima è meno rigido, l’uomo si è insediato operando grandi trasformazioni agrarie (specie in Europa Centro-settentrionale) con diminuzione a volte drastica delle foreste di conifere. Il terreno ricco di humus si presta ottimamente allo sfruttamento agrario. Vi si coltivano il grano, l’orzo, l’avena, la barbabietola da zucchero, il girasole e la patata. L’allevamento invece riguarda bovini, ovini e cavalli. La foresta è soggetta allo sfruttamento commerciale, per ricavare sia legname da opera, sia pasta di cellulosa. La betulla fornisce un legname leggero facilmente lavorabile (ottimo per fabbricare matrioske e balalaike), e produce una cellulosa particolarmente resistente e leggera, utilizzata per la carta della posta aerea.
Nella taiga siberiana i Russi stanno costruendo strade e ferrovie per collegare gli insediamenti del personale addetto alla ricerca di minerali preziosi o all’estrazione di petrolio e gas naturale. FONTE
L’ arte del legno in Italia vanta una tradizione antichissima, che ha visto svilupparsi una produzione altamente creativa e di grandissima qualità fin dal ’500. Impostata fino a non molti anni fa su una struttura prevalentemente artigiana, la vera industria del mobile e dell’arredamento nasce tra gli anni ’50 e ’60. È proprio in questi due decenni, infatti, che si sviluppano le grandi roccaforti del mobile italiano in Brianza, nel Triveneto, nel Pesarese e in Toscana. Nel 1995 sono circa 35.000, e offrono lavoro a 250.000 dipendenti, le industrie italiane del mobile che hanno raggiunto un fatturato di circa 30 miliardi di euro, di cui circa 14.000 sono costituiti dall’esportazione. L’Italia è il primo esportatore di mobili e prodotti di arredamento a livello europeo. I prodotti dell’arredamento “made in Italy” sono ricercati in tutto il mondo. Ma per soddisfare tutto il mercato è necessario molto legname.
Anche l’industria della carta richiede moltissima materia prima. Basti pensare che l’Unione Europea è al secondo posto tra i paesi produttori nel mondo (dopo gli USA e prima del Giappone) e l’Italia è in testa. Nel nostro Paese, la produzione di carta e di cartoni è stata di 8,9 milioni di tonnellate nel 2001. Strumenti musicali in legno Violini, violoncelli e contrabbassi sono costruiti dal liutaio. La loro cassa di risonanza è fatta con legno di picea ed acero, mentre altri pezzi di questi strumenti sono fabbricati con legni esotici come il palissandro e l’ebano. Il violino è composto da più di 60 pezzi. Ma anche molti altri strumenti dell’orchestra (per esempio una intera famiglia di strumenti a fiato, i cosiddetti “legni”, sono fatti per l’appunto di legno. Per fabbricare un pianoforte sono necessari l’abete, il faggio, il tiglio per un totale di 2 metri cubi di legno. C’è legna e legna…da ardere Non tutto il legno brucia allo stesso modo. Il legno di carpine è quello che, bruciando, fornisce più calore; il faggio viene in seconda posizione. La quercia è invece scelta per produrre brace con la caratteristica di durare più a lungo. Il legno proveniente da alberi resinosi permette di scaldare più velocemente, ma non per altrettanto tempo. FONTE
Circa il 10% delle attuali sostanze medicinali deriva da piante medicinali tropicali; tra queste il chinino, curari, e vari tipi di steroidi. Tremila piante hanno proprietà anticancro e il 70% di queste si trova nelle foreste tropicali. Tra le piante medicinali presenti nelle foreste umide vi è la Samambaia (Polypodium lepidopteris e Polypodium decumanum), una felce che cresce nelle foreste piovose del sud America, la cui parte terapeutica è rappresentata dal rizoma e dalle radici. Nell’Amazzonia, il popolo Boras usa le foglie per curare la tosse, mentre altri impiegano il macerato del rizoma contro la febbre, la radice invece viene utilizzata in infuso per alcuni problemi renali. La medicina tradizionale brasiliana riconosce per la Samambaia proprietà sudorifera, antireumatica, tonica, espettorante, utili nella cura di bronchiti, tosse ed altre affezioni delle vie respiratorie, mentre in Perù viene anche utilizzata nella cura delle infezioni urinarie e per numerosi problemi cutanei. Il popolo amazzonico dei Guarnì e quello dei Tupi chiamano una pianta conosciuta con il nome di Pau d’Arco “Tajy“, che significa “avere forza e vigore”; la usano per curare malaria, anemia, malattie respiratorie, febbre, infezioni, arterie e reumatismi, e persino morsi di serpente. Il Pau d’Arco è un grosso albero delle foreste piovose sudamericane che, botanicamente, corrisponde alla Tabebuia spp.
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La prima risorsa economica legata a questo ecosistema è il turismo. Quasi tutti i Paesi tropicali del Pacifico e molti dell’Oceano Indiano hanno, lungo le coste, meravigliose barriere coralline. Tra i turisti ci sono appassionati di sport subacquei, semplici amatori attrezzati con maschere e pinne, pescatori e persone che amano le spiagge bianche e soleggiate formate dall’erosione dei coralli delle barriere. Sono circa un centinaio i Paesi che vivono basandosi principalmente sul turismo “da barriera”. Nella sola Florida il guadagno dovuto al turismo naturalistico è di circa 1,6 miliardi di dollari l’anno; tutti i Paesi dei Caraibi dipendono dal turismo per circa metà del prodotto interno lordo.
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L’olivo è la specie arborea di origine spontanea maggiormente coltivata nella regione della macchia mediterranea, ed è un elemento di notevole importanza nell’economia dei suoi abitanti. Tuttavia, altre due specie originariamente spontanee devono essere citate per il loro utilizzo: la sughera e il carrubo. Altre importanti coltivazioni sono quelle di cereali, leguminose, alberi da frutta, vegetali e piante da insalata. Olio e vino sono i prodotti di derivazione agricola più importanti su cui si basa l’economia delle zone di macchia.
La sughera Le foreste di sughere sono strettamente legate alle condizioni climatiche di alcune aree mediterranee. Queste foreste sono caratterizzate da popolamenti sparsi che formano sistemi agro-silvo-pastorali con grande ricchezza floristica e faunistica. In particolare la flora spontanea, molto ricca di piante aromatiche e medicinali, può aumentare il valore delle sughere. Molte specie vegetali che crescono in questa foresta, a causa della loro varietà e del lungo periodo di fioritura, sono un ottimo approvvigionamento per le api. Il sughero è raccolto esclusivamente dal tronco e la sua produzione si è espansa significativamente negli ultimi anni, infatti le nuove foreste di sughere raggiungono quasi i 120.000 ettari. L’olivo L’olivo, probabilmente nativo della Siria, fu introdotto in Asia minore, Egitto, Grecia, Italia e altri paesi della regione mediterranea. L’uomo, con le sue coltivazioni, ha aumentato significativamente la distribuzione geografica di questa pianta, che oramai si estende dal centro-sud della Francia alle zone presahariane. La specie mediterranea, Olea europea, è distinta in due sottospecie, l’oleastro od olivo selvatico (Olea oleaster), e l’olivo coltivato o domestico (Olea sativa). L’olivo domestico è un albero di dimensioni maggiori del selvatico, con statura in media fra i 4 e i 12 metri, ma che può raggiungere anche i 20 metri qualora le condizioni di clima e di terreno siano ottimali. Il fusto è grosso, i rami sono arrotondati, lisci e senza spine, la chioma è solitamente ben sviluppata e slanciata. I rametti dell’olivo sono flessibili e talvolta pendenti, le foglie, lanceolate, sono verdi e prive di peli nella parte superiore, bianco-lucenti in quella inferiore. I frutti dell’olivo coltivato sono grossi, polposi, ricchi di olio, ma meno numerosi che nel selvatico e sempre in numero limitato rispetto a quello dei fiori. FONTE
L’ambiente della savana è favorevole all’agricoltura e all’allevamento; per questo ha subito consistenti modificazioni. Gli abitanti di questo bioma sono soprattutto agricoltori che coltivano cereali e altre piante in grado di sopportare lunghi periodi di siccità, come miglio, sorgo, orzo e frumento, ma anche arachidi, cotone, riso e canna da zucchero. Nelle zone di savana dal clima più arido prevale invece l’allevamento. Gli animali allevati sono generalmente bovini (zebù), pecore, capre e asini. Molte sono le popolazioni che abitano la savana: i Masai in Kenia e Tanzania, i Nubiani nell’alta Nubia sudanese, i Kualngo e Akan in Costa d’Avorio, Boscimani e Ottentotti in Namibia.
I Masai Il popolo più conosciuto di questo ambiente è il popolo Masai. I Masai sono un insieme di gruppi accomunati dalla medesima lingua e da somiglianze culturali e social, che vivono dispersi tra il Kenya e la Tanzania. Vivono principalmente di pastorizia, ma si dedicano anche all’agricoltura e al commercio. L’allevamento fornisce gli alimenti base della dieta dei guerrieri; essi, infatti, si cibano esclusivamente di latte, carne e sangue bovino. I vecchi e le donne si nutrono anche di burro, legumi e farina. Tutti consumano molto miele, e il tabacco è permesso solo alle donne e ai vecchi. Questo popolo, le cui radici risalgono a tempi antichi, vanta importanti tradizioni, dalle cerimonie religiose a quelle di iniziazione dei giovani guerrieri. Gli uomini portano i capelli lunghi, acconciati in ciocche compatte impastate con ocra rossa e grasso animale, mentre le donne, i vecchi e i bambini devono rasarsi accuratamente. Un’altra usanza particolare tra i Masai è quella di cambiare nome ad ogni passaggio nelle varie fasi della vita, dall’infanzia alla vecchiaia. Tra tutti gli abitanti del villaggio, uno in particolare riveste un’autorità superiore: il-oi-boni, una sorta di capo, che è anche guaritore, e che possiede poteri per effettuare profezie e divinazioni attraverso il lancio delle pietre, l’ispezione delle viscere animali, l’interpretazione dei sogni e l’interrogazione oracolare. I Masai credono nell’esistenza di due divinità sovrumane: il dio rosso, malefico e portatore di siccità, e il dio nero, benevolo e in grado di far piovere. Le due figure divine sono oggetto di offerte sacrificali e rituali propiziatori soprattutto con l’erba, che tra i Masai assume un carattere religioso e un forte valore simbolico, tanto che, se combattono un nemico e vogliono far pace, porgono l’erba come segno di pace. I Boscimani Un altro popolo, un tempo molto numeroso e oggi ridotto solo a poche migliaia di individui, è quello dei Boscimani, presente nel deserto del Kalahari. La loro economia è basata esclusivamente sulla caccia, praticata dagli uomini e integrata dalla raccolta di radici e semi, praticata invece dalle donne e dai bambini. Il modo di vivere e l’organizzazione sociale dei Boscimani sembrano molto simili a quelli delle genti del tardo Paleolitico, ed è per questo motivo che sono oggetto di approfonditi studi antropologici. Ancora oggi, i Boscimani applicano le tecniche di caccia descritte negli antichi graffiti su rocce: l’agguato teso stando appiattiti al suolo, e poi il lancio delle frecce avvelenate contro la preda. Oltre all’arco, per la caccia vengono usati la clava con testa di pietra, il bastone da scavo, il coltello raschiatoio di pietra e talvolta la lancia. Per fabbricare rudimentali vestiti sono usate solo le pelli non conciate; la scarsa acqua viene conservata entro i gusci d’uovo di struzzo. L’abitazione, un semplice paravento, viene eretta al momento della sosta, quando il cacciatore ha ucciso la preda. Questa viene consumata subito, leggermente scottata al fuoco, non essendo abitudine dei Boscimani provvedere a conservare gli alimenti. La struttura sociale è assai semplice, fondata sulla famiglia monogamica. Ogni famiglia ha un suo territorio di caccia nell’ambito di quello più vasto, ma rigorosamente definito, della tribù. Le difficili condizioni ambientali e il genere di vita nomade impongono severe norme di vita, che in passato dovevano essere più facili, come appare dal ricco e vivace patrimonio di miti e leggende e dalla caratteristica stessa dell’Essere supremo, un tempo buono e oggi cattivo per le crudeli lotte che ha dovuto sostenere. I Bantu prima e gli europei dopo hanno proceduto a un sistematico sterminio dei Boscimani. Molti dei gruppi originari sono scomparsi o ridotti a poche decine d’individui tanto che, attualmente, il popolo dei Boscimani è rappresentato da 10 – 15000 individui. Inoltre il loro territorio è diventato luogo di ricerca per le risorse naturali, senza tenere conto delle conseguenze che ciò potrà avere sui Boscimani. Dopo anni di indifferenza da parte dei governi africani, sta ora crescendo la sensibilità verso il problema delle minoranze indigene che rischiano di scomparire. La collettività ha ora compreso l’importanza del grande patrimonio culturale e artistico dei Boscimani, considerati fra i più significativi della storia dell’umanità. FONTE
Nonostante l’inospitalità del deserto, esistono etnie che vivono in questi luoghi; sono gruppi di persone costrette a spostarsi continuamente in carovane alla ricerca di luoghi dove trovare acqua e cibo, sfidando quelli che sono i maggiori rischi: tempeste di sabbia, pozzi insabbiati o perdita della direzione per mancanza di punti di riferimento. Alcuni di questi popoli sono i Berberi del nord Africa, che comprendono tra gli altri anche Kabili e Tuareg; i Beduini dei deserti arabi, i Beja in Namibia, i San del Kalahari e gli aborigeni australiani.
I Tuareg Emblema della vita umana nel deserto sono i Tuareg che, da secoli, vivono percorrendo con i loro dromedari le piste del Sahara. Detti anche “uomini blu” per il caratteristico velo che indossano per ripararsi dalla sabbia e dal caldo, questo popolo vive in accampamenti di tende costituite da decine di pelli di capra dipinte di ocra rosso, cucite sapientemente dalle donne per custodire tutti gli oggetti e gli utensili della vita quotidiana. I Tuareg vivono principalmente di prodotti ricavati dai loro animali. La loro alimentazione è costituita da latte cagliato, burro fermentato, datteri e cereali (in particolare il miglio) dai quali ottengono la farina. La carne si mangia raramente, ma quando arriva l’ospite, che va assolutamente onorato, si uccide la capra secondo la tradizione mussulmana. L’acqua viene trasportata in otri ricavate da zucche svuotate e seccate al sole, la cui superficie decorata permette di identificare il gruppo che le ha prodotte. In origine i Tuareg erano un popolo nomade, ma successivamente i vari conflitti e la colonizzazione francese hanno spinto molti di essi a svolgere una vita sedentaria, e i pochi che restano nomadi vivono dei prodotti dei loro animali e di altri cibi ottenuti commerciando e allevando dromedari e cavalli. Realizzano prodotti artigianali in argento cesellato, conciano pelli, fabbricano stuoie e realizzano tappeti e tessuti con lana di dromedario. L’agricoltura, così come l’artigianato di alto livello, è praticata da caste inferiori che sono sedentarie nelle oasi. Oggi, alcuni Tuareg hanno trovato un impiego nel terziario e si occupano di turismo: da ottimi conoscitori del deserto, fanno da guida ai turisti durante le escursioni. I Beja Se i Tuareg possono essere considerati “incontrastati padroni del Sahara”, i Beja sono da sempre gli abitanti delle vaste distese del deserto nubiano. La maggioranza della popolazione Beja (circa 1,5 milioni) vive nel Nord-Est del Sudan. Sono chiamati i “Fuzzy-Wuzzies” a causa dei loro capelli crespi. Per oltre 4000 anni i Beja hanno percorso questo caldo paese e le colline desolate del Mar Rosso alla ricerca di pascoli per i loro cammelli, bovini, pecore e capre. Erano temuti per le rapide scorrerie che effettuavano contro le ricche città lungo il Nilo. Dopo il saccheggio si rifugiavano nel deserto di cui conoscevano tutti i meandri e i pozzi dove poter trovare acqua, anche i più nascosti. Sono un popolo valoroso e tenace tanto che, non solo ha saputo resistere alla pressioni di Egiziani, Greci e Romani, ma, nel XIX secolo, ha persino vinto una battaglia contro l’esercito britannico, molto meglio equipaggiato e preparato militarmente. Da sempre le loro uniche armi sono: la spada, ornata d’argento, il coltello ricurvo, lo scudo rotondo di pelle d’elefante e un’arma antichissima, il “bastone da getto”, già utilizzato nell’Egitto faraonico per la caccia. FONTE
La steppa è un paesaggio dove dominano i grandi spazi e dove l’uomo ha lasciato poche tracce del suo passaggio. Tuttavia la steppa regala a chi si avventura tra le sue sconfinate terre luoghi di rara bellezza. Ma l’interesse per la steppa non è determinato dalla sola bellezza dei suoi paesaggi: il sottosuolo è spesso ricco di risorse minerarie e giacimenti di idrocarburi.. La flora della steppa offre alcune piante medicinali, come l’eleuterococco (Eleutherococcus senticosus) conosciuto anche come ginseng siberiano. La steppa costituisce un’importante riserva di minerali e idrocarburi. Si pensi che nel solo Kazakistan è presente il 60% di tutte le risorse dell’ex Urss. In questo paese, dopo anni di crisi economica, nel 2000 il PIL (Prodotto Interno Lordo) è cresciuto del 9%, l’industria manifatturiera del 14% e persino l’agricoltura. Ma più che ogni altro settore, l’industria petrolifera è in grande sviluppo: intorno agli idrocarburi ruota tutta l’economia dell’area caucasica. Petrolio e gas costituiscono il motore dello sviluppo per questi popoli, ma sono anche utili per riequilibrare la dipendenza del mondo dal petrolio medio-orientale. Nel 2000, la produzione di gas naturale in Kazakistan è arrivata a 7,13 miliardi di metri cubi, mentre quella di petrolio ha raggiunto i 706.000 barili/giorno. Il solo Turkmenistan possiede le terze riserve mondiali di gas (3.000 miliardi di metri cubi) e il bacino dal Mar Caspio conterrebbe fino a 200 miliardi di barili di greggio per un valore, agli attuali prezzi di mercato, di oltre 4 mila miliardi di dollari.
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March 2020
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