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Come risultato del vertice di Rio del 1992 nasce l’Agenda 21, un insieme di azioni da effettuare a livello locale per poter risolvere i problemi globali del nostro pianeta, coniugando lo sviluppo economico con la tutela dell’ambiente e la crescita sociale. Il 26 dicembre 1996 è entrata in vigore la Convenzione delle Nazioni Unite che propone iniziative di cooperazione internazionale; l’obiettivo comune è il miglioramento della produttività delle terre coltivate, il loro recupero e conservazione e una gestione sostenibile del suolo e delle risorse idriche. Vengono studiati progetti appositamente per un determinato territorio, coinvolgendo le popolazioni locali, ripristinando preziose tradizioni e rivalutando il ruolo delle comunità rurali per evitare il degrado del territorio. Inoltre, mentre in passato si tendeva a cercare soluzioni di tipo tecnico, oggi si tende ad affrontare la globalità del problema, dovuto alla continua crescita della popolazione ma anche a fattori di natura politica e socio-economica. A livello mondiale, si occupano di desertificazione varie agenzie ONU tra le quali FAO (Food and Agricolture Organization), IFAD (International Fund for Agricultural Development), il Programma ONU per lo Sviluppo (UNDP), l’Organizzazione Meteorologica Mondiale, UNEP (United Nations Environment Programme), UNESCO (United Nations Educational, Scientific and Cultural Organization).
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Secondo le stime del Programma per l’Ambiente delle Nazioni Unite (United Nations Environment Programme – UNEP), un quarto delle terre del pianeta è minacciato dalla desertificazione. Le esistenze di più di un miliardo di persone in oltre 100 nazioni sono a loro volta messe a rischio, dal momento che la coltivazione e il pascolo divengono meno produttivi. Per desertizzazione si intende la semplice avanzata di un deserto in una data area, verso zone non desertiche. Per desertificazione, invece, si intende un processo di degrado di suoli che porta alla scomparsa della biosfera (animali e piante) generalmente di origine antropica.
Il deserto, una volta formato tramite desertificazione, si può espandere (desertizzazione). In base alla definizione della Conferenza delle Nazioni Unite su “Ambiente e Sviluppo” tenutasi a Rio de Janeiro nel 1992, la desertificazione è un processo di “degrado dei terreni coltivabili in aree aride, semi-aride e asciutte sub-umide in conseguenza di numerosi fattori, comprese variazioni climatiche e attività umane”. In tutte queste aree, si assiste alla progressiva riduzione dello strato superficiale del suolo e della sua capacità produttiva. Il fenomeno è grave poiché determina a sua volta altre crisi ambientali, quali la perdita della biodiversità ed il riscaldamento della temperatura su scala planetaria. Aree di terreno degradato possono trovarsi a centinaia di chilometri dal deserto più vicino; ma possono espandersi ed unirsi l’una con l’altra, creando delle condizioni simili a quelle desertiche. A determinare questo fenomeno, oltre la siccità, sono le attività umane: le coltivazioni intensive esauriscono il suolo; l’allevamento del bestiame elimina la vegetazione, utile a difendere il suolo da fenomeni erosivi, gli alberi che trattengono lo strato superficiale del terreno vengono tagliati per essere utilizzati come legname da costruzione o come legna da ardere per riscaldare e cucinare; l’attività irrigua effettuata con canali e tubazioni scadenti rende salmastre le terre coltivate, desertificando 500.000 ettari all’anno. La maggior parte delle regioni che rischiano di tramutarsi in terre aride si trovano in prossimità delle cinque principali aree desertiche mondiali:
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In questo ecosistema ostile l’insediamento umano è legato anche allo sfruttamento delle risorse minerarie: dall’oro ai diamanti, dal petrolio a molti minerali. Già nel periodo tolemaico, nell’antico Egitto, gli schiavi faticavano senza interruzione per estrarre l’oro dal quarzo, utilizzando rudimentali strumenti di pietra. Ancora oggi, una vasta fetta del deserto della Namibia e del Sud Africa è sfruttata per l’estrazione di diamanti. A testimoniare quest’attività, rimane l’ex città mineraria di Kolmanskop, oggi una vera e propria città fantasma al confine con questa zona proibita. Venne fondata attorno al 1920 a seguito del ritrovamento di diamanti, crebbe rapidamente fino a diventare un importante centro lavorativo e residenziale della zona e venne completamente abbandonata nel 1956. Oggi la sabbia ha invaso alcune case entrando dalle finestre, sbarrando le porte e sfondando i tetti, e solo alcune abitazioni sono mantenute in buone condizioni e perfettamente arredate, a raccontare come l’uomo ha vissuto in questo luogo. Il Sud Africa e’ il più importante produttore di diamanti del continente Africano. In questa zona, i diamanti si ritrovano principalmente in rocce ignee, come i camini kimberlitici, che furono scoperti per la prima volta nel 1869. Il più grande diamante mai trovato, il Cullinan (3.106 carati - nella foto), e molte altre importantissime gemme sono state estratte proprio in Sud Africa. Per notizie riguardanti al petrolio, si rimanda alla sezione ad esso dedicata.
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Nella foto: sarcofago di porfido
L’importanza economica del deserto è legata anche allo sfruttamento delle risorse minerarie, attività presente già dall’antichità. In Egitto, per esempio, durante l’egemonia romana, veniva estratto il porfido rosso che veniva utilizzato per ornare i grandi edifici pubblici e le dimore dell’imperatore. L’importanza del porfido rosso era legata probabilmente, oltre che alla sua bellezza, alla scelta della porpora come colore reale o imperiale: il suo nome infatti, “porphyrites” deriva da “porphyra”, che significa porpora. Le cave di porpora si trovavano nel Deserto orientale egiziano su un monte a 1660 metri sul livello del mare, che prendeva il nome dal colore delle rocce: “Mons Porphyrites” o “Mons Igneus”, cioè monte di fuoco. Le cave furono abbandonate definitivamente nella prima metà del V secolo. In alcuni deserti si trovano giacimenti minerari di oro e granito, anch’essi sfruttati fin dall’antichità. La risorsa economica principale dei deserti è, comunque, il petrolio, i cui giacimenti più ricchi si trovano nel Golfo Persico (Arabia Saudita, Iraq, Emirati Arabi Uniti, Kuwait e Iran). In questa zona, dall’estensione limitata, è presente il 65% delle riserve mondiali di petrolio; solo in Arabia Saudita è presente il 25%; quest’ultima risulta essere quindi il Paese con le più ricche riserve di greggio. FONTE
Nelle zone desertiche l’agricoltura è praticata soltanto nelle oasi. All’origine c’è spesso una singola palma, piantata in uno scavo del terreno e circondata da rami secchi per proteggerla dalla sabbia. Con il tempo si sviluppano estese coltivazioni, ma l’acqua necessaria alla crescita della vegetazione non scaturisce liberamente da sorgenti. E’ necessaria un’opera umana faticosa e rigorosa per sfruttare la riserva idrica presente nel sottosuolo. Nel corso del tempo, l’uomo ha costruito vasche sotterranee per raccogliere l’acqua, e lunghi canali per trasportarla. Tali strutture necessitano di una continua manutenzione per eliminare depositi di sabbia o di pietre che ostruiscono il flusso. Ogni oasi ha un caratteristico sistema di irrigazione: per esempio, a Ghardaya (valle del Mozab) nel Sahara, l’acqua scorre sotto il letto asciutto di un antico fiume. Oltre un milione di palme da dattero vengono irrigate grazie ad una sofisticata struttura che gestisce il flusso sotterraneo. Si tratta di un capillare sistema di dighe, sbarramenti e pozzi che canalizzano, smistano e dosano l’acqua, facendo sì che in tutti i giardini ne arrivi la giusta quantità. In altre oasi, come quelle che si trovano nella regione del Souf, dove la falda freatica è molto vicina alla superficie, i contadini hanno ideato un altro metodo ingegnoso per bagnare i palmeti: anziché irrigare la superficie con pozzi e canali, scavano per le palme dei veri e propri crateri, in modo tale che queste possano raggiungere direttamente con le radici l’acqua della falda: uno stratagemma che evita le dispersioni dovute all’evaporazione e offre alle piantagioni una valida protezione contro il vento e la sabbia.
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Nonostante l’inospitalità del deserto, esistono etnie che vivono in questi luoghi; sono gruppi di persone costrette a spostarsi continuamente in carovane alla ricerca di luoghi dove trovare acqua e cibo, sfidando quelli che sono i maggiori rischi: tempeste di sabbia, pozzi insabbiati o perdita della direzione per mancanza di punti di riferimento. Alcuni di questi popoli sono i Berberi del nord Africa, che comprendono tra gli altri anche Kabili e Tuareg; i Beduini dei deserti arabi, i Beja in Namibia, i San del Kalahari e gli aborigeni australiani.
I Tuareg Emblema della vita umana nel deserto sono i Tuareg che, da secoli, vivono percorrendo con i loro dromedari le piste del Sahara. Detti anche “uomini blu” per il caratteristico velo che indossano per ripararsi dalla sabbia e dal caldo, questo popolo vive in accampamenti di tende costituite da decine di pelli di capra dipinte di ocra rosso, cucite sapientemente dalle donne per custodire tutti gli oggetti e gli utensili della vita quotidiana. I Tuareg vivono principalmente di prodotti ricavati dai loro animali. La loro alimentazione è costituita da latte cagliato, burro fermentato, datteri e cereali (in particolare il miglio) dai quali ottengono la farina. La carne si mangia raramente, ma quando arriva l’ospite, che va assolutamente onorato, si uccide la capra secondo la tradizione mussulmana. L’acqua viene trasportata in otri ricavate da zucche svuotate e seccate al sole, la cui superficie decorata permette di identificare il gruppo che le ha prodotte. In origine i Tuareg erano un popolo nomade, ma successivamente i vari conflitti e la colonizzazione francese hanno spinto molti di essi a svolgere una vita sedentaria, e i pochi che restano nomadi vivono dei prodotti dei loro animali e di altri cibi ottenuti commerciando e allevando dromedari e cavalli. Realizzano prodotti artigianali in argento cesellato, conciano pelli, fabbricano stuoie e realizzano tappeti e tessuti con lana di dromedario. L’agricoltura, così come l’artigianato di alto livello, è praticata da caste inferiori che sono sedentarie nelle oasi. Oggi, alcuni Tuareg hanno trovato un impiego nel terziario e si occupano di turismo: da ottimi conoscitori del deserto, fanno da guida ai turisti durante le escursioni. I Beja Se i Tuareg possono essere considerati “incontrastati padroni del Sahara”, i Beja sono da sempre gli abitanti delle vaste distese del deserto nubiano. La maggioranza della popolazione Beja (circa 1,5 milioni) vive nel Nord-Est del Sudan. Sono chiamati i “Fuzzy-Wuzzies” a causa dei loro capelli crespi. Per oltre 4000 anni i Beja hanno percorso questo caldo paese e le colline desolate del Mar Rosso alla ricerca di pascoli per i loro cammelli, bovini, pecore e capre. Erano temuti per le rapide scorrerie che effettuavano contro le ricche città lungo il Nilo. Dopo il saccheggio si rifugiavano nel deserto di cui conoscevano tutti i meandri e i pozzi dove poter trovare acqua, anche i più nascosti. Sono un popolo valoroso e tenace tanto che, non solo ha saputo resistere alla pressioni di Egiziani, Greci e Romani, ma, nel XIX secolo, ha persino vinto una battaglia contro l’esercito britannico, molto meglio equipaggiato e preparato militarmente. Da sempre le loro uniche armi sono: la spada, ornata d’argento, il coltello ricurvo, lo scudo rotondo di pelle d’elefante e un’arma antichissima, il “bastone da getto”, già utilizzato nell’Egitto faraonico per la caccia. FONTE
Il deserto del Gobi, all’estremità sud occidentale della Mongolia, oggi è una delle zone più inospitali del pianeta, ma da 130 a 65 milioni di anni fa era una regione ricca di vita, di grandi laghi e di fiumi. È qui che, a partire dai primi anni del secolo scorso, i paleontologi hanno scoperto ricchissimi giacimenti di fossili del periodo Cretaceo, quando i dinosauri raggiunsero l’apice della loro evoluzione prima di estinguersi. Per capire quanto siano importanti le scoperte di questa zona, basta dire che dei sette gruppi sistematici in cui sono stati classificati i dinosauri, ben cinque sono rappresentati fra i fossili del Gobi, e fra loro quasi tutte le specie carnivore. Non è solo la varietà delle specie ritrovate a rendere unico il deserto del Gobi, quanto soprattutto i preziosissimi fossili, che mostrano ogni fase della vita dei dinosauri: le uova non ancora dischiuse, i resti dei piccoli appena usciti dalle uova e persino, in un unico caso, un predatore e la sua preda conservati insieme.
FONTE Le origini del deserto del Sahara, il più vasto deserto caldo e il più esteso in assoluto, risalgono a circa 600 milioni di anni fa. Il mare sommerse ripetutamente questa regione, depositando i suoi sedimenti; ad ogni riemersione si alternarono foreste, savane e addirittura paludi. Durante questa fase, nella zona crescevano alberi come la quercia, il cipresso, l’ulivo e il pino d’Aleppo. Circa 50-55 milioni di anni fa, le terre emersero definitivamente e incominciò la fase di inaridimento del territorio; a testimonianza di ciò rimangono ancora oggi molte tracce: conchiglie, tronchi ora trasformati in pietra dopo un lento processo di silicizzazione, pitture rupestri e graffiti raffiguranti la tipica fauna della savana. FONTE Un deserto ha origine dopo una prolungata carenza di precipitazioni. La conformazione geologica – dovuta in prevalenza all’azione del vento (erosione eolica) – può essere di differenti tipologie. Ci sono i deserti di sabbia, chiamati erg, di roccia, detti hammada, o di ciottoli, i deserti serir. La storia di un deserto può essere studiata attraverso la paleontologia. Durante il pleistocene (1 milione di anni fa), dove attualmente si trovano i deserti si alternarono periodi piovosi coincidenti con le glaciazioni e periodi aridi corrispondenti ai periodi di clima più caldo. Questo è dimostrato dalla sequenza stratigrafica del terreno e dalle variazioni del livello delle acque di alcuni laghi esistenti ancora oggi. Ad esempio il lago Ciad nel Sahara, un tempo era enormemente più ampio e più profondo di 120 m. In tempi più recenti, al termine dell’ultima glaciazione, il clima di alcune zone terrestri (in condizioni di costante alta pressione) ha determinato la distribuzione dei deserti. In altri casi (il semi – deserto patagonico delle Ande), a favorirne la formazione è stata la presenza di catene montuose che ha costituito una barriera per le correnti umide provenienti dagli oceani. Le nuvole, infatti, vengono bloccate dalle montagne e, di conseguenza, portano pioggia sul primo versante che incontrano, mentre, “a ridosso”, la piovosità risulta scarsissima. Anche le correnti fredde oceaniche hanno dato origine a zone aride: esse generano venti freschi e costanti che trasportano poca umidità, che al massimo si condensa in nebbia senza dar luogo a precipitazioni vere e proprie. Hanno questa origine il deserto costiero del Perù e Cile settentrionale, bagnato dalla corrente fredda antartica di Hudson, e il deserto del Namib, bagnato dalla corrente antartica del Banguela. I venti inoltre sono responsabili del continuo modellamento del paesaggio desertico: la vegetazione infatti è praticamente assente e il suoli sono facilmente aggredibili. L’azione erosiva è anche amplificata dalla presenza di sabbia, che funziona come agente abrasivo. I più spettacolari risultati dell’azione eolica consistono in rocce erose e levigate dalle forme più fantasiose. Anche le dune sono opera del vento, che crea e sposta queste montagne sabbiose; le correnti d’aria, infatti, sollevano i granelli e li ridepositano quando aumenta l’attrito. La forma delle dune è influenzata principalmente dalla direzione e dalla costanza del vento; si hanno dune paraboliche, a cupola, a barcana, traverse, lineari, opposte e a stella. FONTE Anche nel mondo animale si trovano sorprendenti adattamenti a questo habitat inospitale dove il caldo e la siccità sono i principali fattori limitanti per lo sviluppo della vita, e determinano anche una scarsa disponibilità di cibo. Alcuni animali del deserto durante l’estate o nel caso di siccità particolarmente prolungata vanno in “estivazione”, riducono, cioè, le proprie attività, riparandosi sotto le rocce o nel sottosuolo, esattamente come avviene in inverno nelle latitudini temperate, quando molti esseri viventi si ibernano o entrano in letargo. Tra gli animali che vanno in estivazione ci sono, per esempio, alcune specie di rettili e le chiocciole del deserto, che sono attive solo subito dopo le piogge: quando l’umidità diminuisce, si ritirano nella conchiglia aspettando le nuove precipitazioni in uno stato di torpore che può durare cinque anni. Anche farfalle, coleotteri e blatte del deserto sincronizzano i propri cicli vitali con i periodi piovosi: le larve emergono dalle uova solo quando, grazie alle piogge, aumenta la disponibilità alimentare. Una diminuzione delle attività si riscontra anche durante la giornata, soprattutto nelle ore centrali più calde, in cui tutti gli animali cercano riparo all’ombra. Alcuni grandi animali come mammiferi ungulati, carnivori, uccelli e insetti volanti per spostarsi dalle aree più calde e aride a quelle più ospitali si disperdono (erratismo) o intraprendono vere e proprie migrazioni. Ad esempio, le ganghe e le grandule, uccelli simili alle pernici, si spostano ogni giorno per andare ad abbeverarsi nelle oasi, o ovunque possano trovare acqua. Questi volatili riescono addirittura ad abbeverarsi con acqua salmastra. Grandi o piccoli per sopportare il caldo Per vivere alle alte temperature di questo ambiente poco ospitale, alcune specie animali hanno sviluppato particolari adattamenti morfologici (che riguardano la forma) e fisiologici (che riguardano il funzionamento). Gli animali del deserto, secondo la regola di Allen, o hanno dimensioni corporee minori rispetto a quelli delle aree più fredde, in modo da disperdere più facilmente il calore, oppure grandi dimensioni: infatti, maggiore è la massa dell’animale (per esempio il cammello), più lentamente si scalderà in condizioni di alte temperature. FONTE |
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