Gli oceani sono pieni di sguardi. I calamari giganti scandagliano i fondali marini con gli occhi più grandi al mondo, che sono curiosamente simili a quelli dei capodogli che danno loro la caccia. Gli stomatopodi, l'ordine di crostacei cui appartiene la cicala di mare, hanno occhi complessissimi in grado di elaborare la luce come satelliti; i chitoni guardano il mondo attraverso lenti fatte di roccia calcarea; le stelle marine hanno gli occhi sulla punta delle braccia, le capesante scrutano gli abissi con decine di occhi che hanno specchi al loro interno. Ma per osservare gli occhi più strani mai visti - un apparato oculare così insolito che non possiamo essere sicuri si tratti proprio di questo - bisogna strizzare ben bene lo sguardo.
A possederlo sono le alghe che fanno parte della famiglia delle Warnowiacee, appartenente al grande gruppo dei dinoflagellati. Sono alghe composte da una singola cellula, così piccole che entrerebbero a centinaia nel punto che chiude questa frase. Osservata al microscopio, ciascuna alga contiene una macchia scura ben visibile, chiamata ocelloide: è composta di una sfera chiara posta di fronte a una striscia di colore rosso scuro, e i suoi componenti somigliano a una lente, un'iride, una cornea e una retina.
Finora si pensava che gli occhi fossero una "invenzione" degli animali. Di solito sono composti da un gran numero di cellule. Sono il simbolo stesso della complessità biologica. Eppure, ecco un non animale che racchiude queste caratteristiche all'interno di una sola cellula. L'ocelloide è davvero un occhio? Può percepire la luce? Che funzione svolge all'interno dell'alga unicellulare?
Gregory Gavelis, ricercatore presso l'Università della British Columbia, con i suoi studi sta cercando di rispondere a queste domande. E una delle sue scoperte è ancora più sorprendente: almeno due dei componenti dell'ocelloide - la "retina" e la "cornea" - sarebbero composti da batteri addomesticati.
Il primo scienziato a scoprire l'ocelloide fu Oscar Hertwig, uno zoologo tedesco. Nel 1884, mentre studiava alla Stazione zoologica di Napoli, fu attratto da un minuscolo granello sospeso in una piastra di Petri, che saltellava su e giù nell'acqua, come se volesse attirare l'attenzione. Hertwig risucchiò il granello dall'acqua e lo iniettò nell'etanolo. Fu un errore, perché la microstruttura cominciò a disintegrarsi velocemente; il ricercatore disegnò il più velocemente possibile quel che aveva osservato, fin quando il granello non fu completamente distrutto. Lo scienziato pubblicò in seguito il suo studio, descrivendo appunto una struttura simile a un occhio.
Karl Vogt, uno zoologo di maggiore esperienza, accusò il collega di aver interpretato il fenomeno in modo del tutto errato. Una creatura unicellulare non poteva avere occhi: doveva aver fagocitato l'occhio di una medusa morta. Il dibattito tra i due scienziati continuò in toni molto accesi, ma Hertwig non trovò mai una seconda Warnowiacea da osservare, e finì per dedicarsi con successo ad altri campi di studio. Nessuno osservò più quest'alga unicellulare fino al 1921, quando Charles Atwood Kofoid e Olive Swezy dimostrarono che è diffusa lungo tutta la costa pacifica dell'America del Nord, anche se molto rara: alcune delle specie descritte dai due studiosi non sono mai più state osservate da allora. Questa rarità rende complesso lo studio delle Warnowiacee, che non possono nemmeno essere cresciute in coltura.
“Se ne trovi cinque in una sola piastra di Petri sei proprio fortunato", commenta Gavelis.
Si può, però, studiare il loro patrimonio genetico. Le tecnologie di sequenziamento si sono evolute a tal punto che gli scienziati sono ora in grado di analizzare il DNA di ogni singola cellula. Il team di Gavelis, guidato da Brian Leanders, ha utilizzato queste tecnologie per studiare gli “occhi” di due tipi di Warnowiacee: Erythropsidinium - la specie disegnata da Hertwig - e Warnowia. In particolare, lo studio si è concentrato sulla struttura curvilinea rossa chiamata corpo retinico, così chiamato perché simile alla nostra retina, la struttura deputata al rilevamento della luce.
Gavelis ritiene di aver trovato conferma di una teoria già avanzata in passato: il corpo retinico sarebbe un plastide, un tipo di struttura che si trova nelle cellule delle alghe e delle piante. Sono ad esempio plastidi i cloroplasti verdi, che attraverso la fotosintesi clorofilliana convertono la luce solare in energia per l'organismo. I plastidi si sono evoluti da batteri anticamente fagocitati da una cellula e costretti a un rapporto di “servitù”. Nel corso del tempo, il batterio sarebbe quindi diventato una struttura funzionale per l'alga ospite, trasformandosi nel plastide che possiamo osservare oggi.
Le cellule possono acquisire batteri tramite processi di fagocitosi e addomesticamento, o sottrarli ad altre strutture cellulari. L'antenato dei dinoflagellati, il gruppo di alghe a cui appartengono le Warnowiaceae, ha fatto esattamente questo, fagocitando un'alga rossa e appropriandosi dei suoi plastidi.
Gavelis ritiene che questi batteri “rubati” abbiano poi costituito il corpo retinico nelle Warnowiacee. Lo scienziato ha sezionato queste strutture ed estratto il DNA al loro interno: tra le sequenze geniche analizzate, ha rinvenuto geni attivi coinvolti nei processi di fotosintesi e presenti solo nei plastidi algali. Estraendo DNA dall'intera struttura cellulare della Warnowiacee, ha scoperto, in proporzione, molti meno geni deputati alla fotosintesi.
Lo studioso è riuscito a dimostrare che la cornea dell'ocelloide è formata da piccole strutture a forma di fagiolo chiamate mitocondri. Le strutture mitocondriali discendono da antichi batteri a vita libera, che sono stati addomesticati dalle cellule e hanno dato origine ad una forma di vita complessa. Da miliardi di anni, i mitocondri riforniscono di energia le cellule eucariote. La loro funzione all'interno delle Warnowiacee non è stata ancora chiarita; all'interno dell'alga unicellulare, i mitocondri creano una sorta di strato continuo intorno alla lente, nella quale si innestano con piccole protuberanze. Potrebbero essere coinvolti nella cattura della luce, come in una vera cornea, o avere la funzione di fornire energia alla cellula.
Ma il più grande mistero relativo all'ocelloide rimane quello sulle sue funzioni, che non sono ancora chiare. L'aspetto è molto simile a quello di un occhio, perché presenta componenti che sembrano concentrare la luce sul corpo della retina. Perché questa possa rispondere alla luce, però, si rende necessaria la presenza di pigmenti fotosensibili. La clorofilla potrebbe essere una possibilità: dopo tutto si tratta di un plastide. Il team di Gavelis sta cercando anche traccia delle opsine, proteine presenti in ogni struttura oculare animale, senza eccezioni, dalle stelle marine al calamaro gigante.
Ma se l'ocelloide è un occhio, è davvero in grado di vedere? Intervistato dalla rivista New Scientist Fernando Gómez, ricercatore dell'Università di São Paulo, ipotizza che l'ocelloide aiuti la piccola alga a prendere la mira per colpire con una sorta di pungiglione le sue prede. Gavelis però è scettico: con un solo ocelloide le Warnowiacee avrebbero comunque una vista limitatissima. “Anche solo identificare un contorno o un'ombra è al di là delle capacità di una singola cellula, almeno di quelle studiate finora". Una spiegazione alternativa è che l'ocelloide permetta alle alghe di rilevare i livelli di luce assoluta, in modo da dirigersi verso la luce o restare in ombra. Ma Gavelis sembra insoddisfatto anche di questa spiegazione, perché esistono dinoflagellati che utilizzano ocelloidi molto più semplici, senza lenti, in grado di rilevare comunque i livelli di luce. Strutture complesse come quelle delle Warnowiaceae devono svolgere funzioni altrettanto complesse, sostiene lo scienziato.
Un'ipotesi è che le alghe le usino per cercare le loro prede: altri dinoflagellati che riflettono un tipo particolare di luce, conosciuta come luce polarizzata circolarmente. Questo segnale spia sarebbe captato dalle Warnowiacee, che poi nuoterebbero sicure verso la preda.
Tom Cronin, uno scienziato che studia i processi legati alla vista presso l'Università del Maryland, non è convinto: "si tratta di una conclusione troppo stiracchiata", commenta. Per cominciare, secondo Cronin, diversi dinoflagellati si cibano dei loro simili, senza dover ricorrere a strutture complesse come l'ocelloide. Inoltre, strutture oculari articolate non presuppongono necessariamente funzioni altrettanto complesse. Le meduse hanno 24 occhi, otto dei quali molto simili ai nostri: “Hanno un sistema ottico eccezionale ma lo usano solamente per l'orientamento e per l'individuazione dei limiti delle zone d'ombra”.
Cronin si chiede anche se, più che un occhio, l'ocelloide non possa essere considerato come un “cloroplasto potenziato”. La sua funzione potrebbe essere semplicemente quella di rifornire l'alga di energia e, attraverso la lente, concentrare di più la luce. Gavelis però ribatte: “Questo contrasterebbe con la storia evolutiva di questi animali”. I membri più antichi del gruppo ricavavano tutta la loro energia tramite la fotosintesi, ma le specie più recenti, dotate dell'ocelloide, sono per lo più predatori. Con queste premesse, l'ipotesi che prefigura l'ocelloide come una struttura fisiologicamente predisposta per la caccia potrebbe essere valida. Sciogliere questo dubbio sarà comunque difficile, data la scarsa reperibilità delle Warnowiaceae. Cronin conclude: "Sappiamo di più sulla strana struttura dell'ocelloide, ma le sue funzione rimangono ad oggi oscure”.
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