Le dimensioni non contano. Per fare un confronto, lo spermatozoo umano misura 0,06 millimetri, e quello dell'ippopotamo 0,033 millimetri.
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La risposta apparentemente più logica non è per forza quella giusta. Le dimensioni degli spermatozoi non dipendono da quelle dell'animale. Ecco qualche esempio.
La risposta è no. Elefanti, scoiattoli e balene possono avere spermatozoi di lunghezza simile. Addirittura, lo spermatozoo più grande, scoperto di recente, è quello della Drosophila bifurca, un moscerino.Con la "coda" srotolata, l'aggrovigliato spermatozoo supera i 5 centimetri di lunghezza (20 volte più grande del moscerino stesso). È anche il più fecondo: ha 100 probabilità su 100 di incontrare l'ovulo perché occupa, da solo, tutto l’apparato genitale della femmina.
Le dimensioni non contano. Per fare un confronto, lo spermatozoo umano misura 0,06 millimetri, e quello dell'ippopotamo 0,033 millimetri. FONTE
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Vissero più a lungo di quanto si credesse ed entrarono forse a contatto con l'uomo. La cattiva notizia è che somigliavano più a rinoceronti che a cavalli, e che sono ormai estinti da 29 mila anni.
L'elasmoterio (Elasmotherium sibiricum), un genere estinto di rinoceronte con un grosso corno posizionato sul cranio - dalle cui fattezze ebbe forse origine il mito degli unicorni - visse molto più a lungo del previsto.
Finora si pensava che l'"unicorno siberiano", un erbivoro estinto tipico dell'Asia di Pliocene e Pleistocene che si diffuse fino alla Siberia, fosse andato completamente estinta 350 mila anni fa. Ma la scoperta di un cranio ben conservato di elasmoterio nella regione di Pavlodar, in Kazakistan, dimostra che un gruppo di questi bestioni preistorici sopravvisse abbastanza a lungo da entrare, potenzialmente, a contatto con l'uomo. Sopravvissuti. Le analisi al radiocarbonio effettuate dai ricercatori della Tomsk State University (Russia) datano il fossile a 29 mila anni fa; l'ipotesi descritta sull'American Journal of Applied Science è che l'area meridionale della Siberia occidentale abbia costituito un rifugio - in termini biologici - ossia una nicchia ecologica dalle condizioni particolarmente favorevoli che consentì agli "unicorni" che qui vivevano, o che vi migrarono, di sopravvivere più a lungo rispetto ai propri simili. Goffi e ingombranti. Il cranio rinvenuto doveva appartenere a un esemplare maschio ormai vecchio. Gli elasmoteri adulti somigliavano più a grossi mammut che al cavallo associato alla figura degli unicorni: alti quasi 2 metri, potevano raggiungere i 4 metri di lunghezza e le 4 tonnellate di peso. FONTE
Una zanzara Aedes aegypti fotografata al microscopio.
Piccole, fragili, facilmente schiacciabili - eppure, quanti danni fanno le zanzare... Alla luce dell'epidemia del virus Zika, molti hanno dichiarato guerra all'insetto responsabile della diffusione di alcune delle più gravi malattie al mondo, come la malaria (438.000 morti nel 2015) la dengue (22.000 vittime l'anno) o la febbre gialla (30.000 molti l'anno). Ma cosa succederebbe nell'ambiente se da un giorno all'altro le zanzare scomparissero? La risposta in sintesi è: nessuno lo sa. Sappiamo che ognuna delle circa 3.500 e passa specie di zanzara gioca un ruolo in natura. I maschi di zanzara ad esempio mangiano nettare, il che li rende importanti impollinatori di alcune colture e di certi fiori, come le orchidee. Inoltre, zanzare di ogni età e sesso costituiscono una fonte di cibo per molte creature: pesci, tartarughe, libellule, uccelli e pipistrelli. Questi ultimi sono spesso citati come i più acerrimi nemici delle zanzare. Eliminarle sarebbe dannoso soprattutto per loro? No, risponde Winifred Frick della University of California a Santa Cruz. La maggior parte dei pipistrelli, spiega l'esperta, sono predatori generalisti, e mangiano qualunque cosa afferrino al volo. Inoltre, varie specie di zanzare - tra cui Aedes aegypti (nella foto) e Aedes albopictus, responsabili dei recenti casi di virus Zika - sono attive durante il giorno, quindi i pipistrelli non hanno molte occasioni di nutrirsene. Inoltre, è assai probabile che i metodi utilizzati in un eventuale tentativo di eradicazione, come il ricorso a pesticidi tipo DDT, sarebbe più dannoso per i pipistrelli che per le loro prede. Per altre specie, “eradicare le zanzare potrebbe avere conseguenze che non siamo in grado di prevedere”, dice Ann Froschauer dello U.S. Fish and Wildlife Service. Il problema infatti è che non sappiamo con chiarezza che ruolo rivestano le zanzare nella catena alimentare. Esistono molte ricerche in questo senso sul ruolo di grandi mammiferi come leoni o leopardi, anche perché sono molto più facili da osservare. Rimuovere un animale dall'ecosistema comporta sempre conseguenze, dice l'ecologo Marm Kilpatrick, della University of California-Santa Cruz. Di quale portata, è difficile stabilirlo, anche se da un punto di vista della salute dell'essere umano avrebbe vantaggi di enorme portata. Indipendentemente quindi dal fatto che una totale eradicazione delle zanzare sia o meno possibile (e forse non lo è) ci sono ancora troppe cose che non sappiamo su quelle che il biologo E.O. Wilson una volta ha chiamato "le piccole cose che governano il mondo". FONTE
Se amate il vino e "odiate" le vespe questa notizia vi farà cambiare idea (almeno per quanto riguarda gli insetti). Le vespe, infatti, sono l’alcova dei lieviti naturali responsabili della fermentazione del vino e garantiscono la biodiversità messa a rischio dal deterioramento ambientale e dall'utilizzo di pochi ceppi selezionati.
La scoperta è merito di un gruppo di ricercatori dell’Università di Firenze e della Fondazione Edmund Mach di San Michele all’Adige, coordinato da Duccio Cavalieri, che ha documentato per la prima volta il comportamento sessuale dei lieviti in ambienti naturali, ricostruendo le tappe e i luoghi in cui l’accoppiamento dei differenti ceppi avviene. La ricerca è stata pubblicata su PNAS e ha un certo interesse. Portatrici di lieviti. «Avevamo già scoperto nel 2012 - racconta Cavalieri - che le vespe portano nell’intestino i lieviti Saccharomyces cerevisiae, lasciandoli poi sugli acini d’uva maturi, dove possono iniziare naturalmente le fermentazioni vinarie». I ricercatori si sono chiesti che cosa succedesse ai lieviti durante la permanenza nell’intestino delle vespe. Per chiarirlo, hanno inoculato dentro gli insetti cinque differenti ceppi di S. cerevisiae, comparando, dopo i due mesi invernali di ibernazione delle vespe, il comportamento di tali lieviti con quello di altrettante colonie cresciute in laboratorio. «Dopo l’ibernazione, l'intestino delle vespe contiene più ibridi di ceppi parentali che genitori» spiega Cavalieri. «Abbiamo quindi dimostrato che l'intestino è il principale ambiente in cui i lieviti Saccharomyces cerevisiae si accoppiano fra loro e con altri ceppi di Saccharomyces selvatici, presenti in natura (ad esempio nella corteccia degli alberi), permettendo così l'evoluzione di ceppi particolarmente adatti a resistere agli stress della fermentazione di vino e birra». È proprio la lunga permanenza in questo ambiente confinato a favorire la generazione di gameti e l'incrocio fra gameti di individui (ceppi) della stessa specie e di specie diverse. Insetti pungenti, ma importantissimi. «Le vespe sono messe a rischio dal degradamento ambientale - spiega Stefano Turillazzi, uno degli autori della ricerca -, ma la biodiversità di questi e altri insetti sociali, come i calabroni, ha un’importanza che va oltre il loro ruolo di impollinatori e riguarda il mantenimento di patrimoni microbici tipici importantissimi per la qualità e la tipicità dei nostri prodotti». FONTE
I due cuccioli perfettamente conservati di una sottospecie estinta di leone chiariranno le ragioni della scomparsa di un mammifero che i nostri avi conoscevano e cacciavano.
I due cuccioli sono grandi pressapoco come un paffuto gatto domestico.
Sono rimasti nascosti per 12 mila anni, fino a quando, un mese fa, i ghiacci perenni del distretto di Abyisky, in Siberia, non li hanno restituiti alla luce. Due cuccioli di leoni delle caverne (Panthera leo spelaea), una sottospecie estinta del leone moderno, sono stati mostrati per la prima volta dalla loro scoperta. I due esemplari perfettamente conservati, ribattezzati Uyan e Dina (dal nome del fiume Uyandina che scorre vicino al sito del ritrovamento), potrebbero svelare preziose informazioni su un felino ormai scomparso che un tempo viveva in un territorio compreso tra le isole britanniche e l'estremo est della Russia, e che forse fu anche cacciato dai nostri predecessori. IN TRAPPOLA. I leoncini avevano solo una settimana quando morirono, forse a causa di una frana che sigillò ermeticamente la tana in cui la madre li aveva deposti prima di andare a caccia. L'assenza di ossigeno e il permafrost ne hanno mantenuti intatti pelo, orecchie, tessuti morbidi e persino baffi, facendone senza dubbio i meglio conservati leoni delle caverne mai rinvenuti.
I cuccioli avevano ancora gli occhi chiusi al momento della loro tragica fine.
ANALISI DI RITO. Dopo il bagno di folla Uyan e Dina saranno sottoposti a una serie di esami per chiarire l'età precisa, le effettive cause della morte, la presenza di eventuali parassiti e persino il contenuto dello stomaco. L'eventuale ritrovamento di latte materno nel loro organismo consentirebbe di trarre preziose informazioni sulla dieta di questi animali, e di capire come facessero a resistere a così rigide temperature. Non è infatti ancora chiaro il motivo che portò questi leoni, leggermente più grandi e robusti degli odierni parenti africani, a sparire dalla faccia della Terra. Il ritrovamento di Uyan e Dina segue un'altra fortunata scoperta avvenuta, nella stessa zona, nel 2013: quella di Yuka, un cucciolo di mammut lanoso vissuto 39 mila anni fa, anch'esso perfettamente conservato. FONTE
Dove e quando è avvenuta la prima domesticazione del cane? Secondo un nuovo studio nel Sud-Est asiatico, 33 mila anni fa
Anche il più salottiero dei cagnolini da compagnia discende dai lupi selvatici. La scienza lo ha scoperto da molto tempo, ma i dettagli di questo processo restano avvolti nel mistero.
Secondo alcuni studi che hanno analizzato il DNA mitocondriale, che viene trasmesso in linea materna, risulterebbe che l'uomo ha iniziato a domesticare il lupo tra i 10 mila e i 32 mila anni fa, in qualche regione del Sud-Est asiatico. Ma altre ricerche che si sono concentrate su marker genetici diversi - come piccoli frammenti di DNA sparsi qua e là nel genoma - indicano invece che la domesticazione sarebbe avvenuta in Europa o in Medio Oriente. Per venire a capo del dilemma, un team internazionale di scienziati guidato da Ya-Ping Zhang dell'Accademia cinese delle Scienze e da Peter Savolainen del KTH, l'Istituto reale di tecnologia svedese, ha sequenziato l’intero genoma di 58 animali tra cani e lupi. Il loro lavoro, pubblicato su Cell Research, ha messo in luce due diverse fasi della domesticazione del cane: la prima ha avuto inizio in Cina circa 33 mila anni fa, mentre la seconda si colloca 18 mila anni dopo, quando il cane si è diffuso in tutto il mondo ed è definitivamente diventato uno dei migliori amici dell'uomo. Non solo Asia Grazie ai suoi studi sul DNA mitocondriale, Savolainen sospettava da tempo che la prima domesticazione del lupo grigio avesse avuto luogo nel Sud-Est Asiatico. Altre pubblicazioni scientifiche l’avevano contraddetto nel corso degli anni, ma lo scienziato aveva notato che nessuna di queste prendeva in considerazione e studiato cani provenienti dalla Cina o da altre parti del Sud-Est Asiatico. Nel corso della nuova ricerca, Savolainen, Zhang e colleghi hanno sequenziato il genoma di 12 lupi grigi, 27 cani autoctoni provenienti da Asia e Africa (che rappresentano una via di mezzo tra il lupo e il moderno cane domestico) e di 19 diverse razze diffuse in varie parti del mondo. “Così abbiamo scoperto che i cani del Sud-Est Asiatico si distinguono dagli animali di ogni altra popolazione, hanno la diversità genetica più alta e sono geneticamente più vicini al lupo”, spiega Savolainen in un comunicato. Uno studio, due scoperte Nonostante la prima domesticazione sia probabilmente avvenuta in Cina, i cani non hanno iniziato a diffondersi sul pianeta fino a circa 15 mila anni fa. Solo allora le migrazioni li hanno portati fuori dal Sud-Est Asiatico in direzione dell’Africa e del Medio Oriente, fino a quando, circa 10 mila anni fa, sono arrivati anche in Europa, dando inizio al moderno assortimento di razze canine che tutti conosciamo. “La storia del cane sembrerebbe aver avuto inizio 33 mila anni fa, ma sappiamo ancora poco del percorso che l’ha portato a diventare l’animale domestico che conosciamo, quello che ha cominciato a diffondersi nel mondo 15.000 anni fa”, conclude Savolainen. FONTE
Chi vive con un amico a quattro zampe lo sa: al momento dei pasti, è più facile accontentare un cane che incontrare i gusti, più raffinati, di un gatto. Una ricerca pubblicata su PLOS One chiarisce l'origine di questa apparente diffidenza: secondo lo studio i gatti domestici, benché carnivori, condividono con gli erbivori alcuni importanti geni implicati nella percezione dell'amaro. Geni che darebbero ai felini la capacità di capire se nelle loro fauci è finito un alimento potenzialmente velenoso (quindi da evitare).
Attenzione, pericolo. Nel mondo animale, il senso del gusto è un importante "cancello" che sbarra la strada alle sostanze dannose e incoraggia il consumo di nutrienti. Il dolce segnala la presenza di zuccheri, fonte di energia; l'amaro è invece un meccanismo di difesa che evidenzia possibili tossine in una pianta o in un frutto non maturo. Amara sorpresa. Poiché i gatti raramente consumano piante (tranne nei casi in cui mangiano erba a scopo "digestivo") ci si potrebbe aspettare che, nel loro DNA, i geni che codificano per i recettori dell'amaro siano stati "disattivati" con l'evoluzione. Invece, quando i genetisti del Monell Chemical Senses Center di Philadelphia hanno cercato i geni per il sapore amaro nel DNA di gatti e altri mammiferi carnivori (come cani, orsi polari e furetti), ne hanno individuati, nel genoma felino, ben 12 di diverso tipo. Sensi sopraffini. Test di laboratorio hanno confermato che i gatti rispondono agli stessi componenti amari presenti in piante e composti velenosi che attivano i recettori umani. Per esempio, sono sensibili al denatonio benzoato, una sostanza molto amara che viene aggiunta a detersivi e cosmetici per prevenirne l'ingestione da parte dei bambini. Ma a cosa servono meccanismi d'allerta così sensibili, se raramente consumano piante? Chi ha un gatto che possa scorrazzare in libertà sa quali tipi di "sorprese" i felini possano portare a casa: i recettori dell'amaro potrebbero servire ad aiutare i mici ad evitare le sostanze velenose presenti sulla pelle di rane, rospi o altri animali con cui i gatti entrano in contatto. Più sensibili. Lo studio evidenzia però che anche i cani sono equipaggiati con un ugual numero di recettori salvavita: perché allora il cane è meno "schizzinoso"? Gli scienziati non hanno una risposta univoca a questa domanda. Alcuni ritengono che l'arsenale di recettori per l'amaro nei gatti potrebbe servire anche a identificare sul nascere le infezioni (in modo analogo a come avviene per l'uomo, che ha recettori per l'amaro persino su cuore e polmoni). E questo sarebbe un vantaggio che hanno i gatti e non i cani Un'altra possibile risposta sta nella sensibilità dei recettori felini: studi precedenti hanno mostrato che in alcuni casi, percepiscono l'amaro in modo molto più acuto degli esseri umani (e quindi, forse, anche dei cani). Ecco perché un alimento "neutro" per noi e Fido potrebbe far storcere il naso alla "tigre" di casa. FONTE
Gli animali selvatici possono bere l’acqua stagnante delle pozze, cibarsi di alimenti certamente non cotti e tutt’altro che sterilizzati perché posseggono anticorpi (molecole del sistema immunitario) che li rendono più resistenti. Per esempio, gli avvoltoi producono enzimi che li rendono capaci di digerire anche la putrescina e la cadaverina, due sostanze molto tossiche che si formano nella carne in putrefazione. Non a caso gli animali da compagnia, cani e gatti, che vivono in un ambiente meno naturale e più protetto, sono più deboli e devono essere nutriti con cibi appropriati, quasi “umani”. E perfino l’uomo possiede, sia pure in misura limitata, una di queste caratteristiche.
Tuttavia, anche se noi non possiamo constatarlo facilmente, molto spesso proprio per avere mangiato quei cibi gli animali selvatici sono afflitti da parassiti e da malattie, a causa delle quali possono anche morire. Un esempio è la toxoplasmosi, che sia l’uomo sia gli altri animali possono contrarre mangiando carne cruda. FONTE
È blu, difficile da catturare e sfida i nemici baciandoli. La nuova specie ittica scoperta da un pescatore australiano è stata classificata dopo mesi di ricerche.
Una nuova specie è stata scoperta in Australia: si tratta di un pesce blu lungo fino a un metro con dodici spine dorsali e un comportamento da vero "bullo". A causa della sua aggressività è infatti soprannominato Bastardo Blu (blue bastard) dai pescatori locali.
E anche il nome scientifico che gli è stato affibbiato rispecchia questa sua natura: Plectorhinchus caeruleonothus dove caeruleum in latino significa blu e nothus bastardo (o figlio illegittimo). La sua scheda è stata pubblicata sulla rivista di zoologia Zootaxa. La conferma della scienza. Curiosa è anche la storia della sua scoperta. Il pescatore Ben Wright, non riuscendo a identificare il pesce appena pescato, ha deciso di inviare una foto al Queensland Museum. Dopo cinque mesi di ricerche e analisi del DNA, l’ittiologo del museo, Jeff Johnson, ha confermato che il Bastardo Blu fa parte di una nuova specie del genere di pesci ossei, a cui è stato dato appunto il nome di Plectorhinchus caeruleonothus. Un bacio doloroso. Curiosa pure la caratteristica distintiva del pesce. Alcuni pescatori hanno affermato di aver visto coppie di Bastardi Blu agganciati per la bocca, come uniti in un bacio. Non si tratta di una tecnica di seduzione, bensì di un morso usato dagli esemplari maschi nei combattimenti per il controllo del territorio: i pesci si stringono per la mascella e si dimenano in questa posizione finché uno dei due molla la presa. Habitat e abitudini. Il luogo prediletto dal Bastardo Blu sono le acque torbide e scure a nord dell’Australia, dove può cacciare piccoli crostacei e larve di gamberi e granchi. Crescendo, il pesce cambia il suo aspetto cromatico: inizia la vita nero a strisce gialle e col tempo diventa progressivamente blu. FONTE
Corpo da serpente e quattro piccole zampe: un fossile di 110 milioni di anni riapre il dibattito sull'origine dei serpenti.
Una ricostruzione artistica del Tetrapodophis amplectus.
I serpenti preistorici erano predatori terrestri muniti di zampe: lo sostiene uno studio pubblicato su Science, dov'è descritto in dettaglio uno straordinario fossile di Tetrapodophis amplectus, una specie vissuta circa 110 milioni di anni fa: lungo l'impronta dello scheletro sono a un certo punto evidenti quattro minuscoli arti, che secondo i ricercatori non servivano già più per la locomozione.
Il fossile del Tetrapodophis amplectus.
Una storia curiosa. Il capo della ricerca David Martill ha raccontato che il reperto (scoperto in Brasile) si trovava nel museo di Solnhofen, in Germania, dov'era «parte di un'ampia esposizione di fossili del periodo Cretaceo: ma nessuno aveva colto la sua importanza», ha spiegato il paleontologo. «Quando l'ho visto ho capito che si trattava di un esemplare incredibilmente importante.»
Caratteristiche. Lo scheletro sinuoso, che misura 19,5 centimetri, conta 272 vertebre e due paia di zampe lunghe meno di un centimetro. All'altezza dello stomaco si vedono i resti dell'ultimo pasto, un piccolo vertebrato che dimostra le abitudini carnivore del rettile.
Come ha evidenziato Nick Longrich, coautore dello studio, le appendici erano ormai inadatte a camminare, ma sarebbe sbagliato liquidarle come semplici organi vestigiali. Le dita affusolate farebbero infatti pensare a strutture altamente specializzate, usate forse per afferrare e stringere le prede. Le piccole zampe posteriori del rettile. Tra lucertole e serpenti. Nonostante di recente fossero già emerse prove che gli antenati dei serpenti moderni avessero almeno due zampe posteriori, è la prima volta che gli scienziati si trovano di fronte a un fossile con quattro arti. Questo rafforzerebbe l'ipotesi, molto dibattuta, secondo cui i rettili striscianti non arriverebbero dal mare, ma sarebbero un'evoluzione di un'ancestrale lucertola terrestre. Non tutti sono però concordi nel classificare il T. amplectus come un possibile anello di congiunzione tra le due specie. Michael Caldwell, paleontologo presso Università di Alberta (Canada), ha ad esempio dichiarato che diverse caratteristiche della colonna vertebrale non giustificano l'inserimento dell'esemplare nell'albero evolutivo dei serpenti. «Penso che il campione sia importante, ma non so ancora dire che cosa sia.» FONTE |
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