FOTOGALLERIA La perdita della biodiversità è una minaccia a livello mondiale: solo nel nostro paese 161 specie di vertebrati sono gravemente minacciate e sei si sono estinte di recente, sparendo dal territorio.
Secondo la Lista Rossa dei vertebrati italiani, curata dall'Unione Mondiale per la Conservazione della Natura (IUCN) sul nostro territorio sono scomparsi la gru, la quaglia tridattila, il gobbo rugginoso, il rinolofo di Blasius, lo storione e lo storione ladano.
Ogni specie svolge un ruolo importantissimo nell'ecosistema in cui vive, e la scomparsa di anche una sola può determinare alterazioni irreversibili sul breve e sul lungo termine. Maggiore è la varietà della singola specie, maggiori sono le sue probabilità di sopravvivere adattandosi alle modifiche dell'ambiente che la circonda.
A livello europeo l'Italia detiene il primato della biodiversità con oltre 67.000 specie di animali e piante, che rappresentano il 43% di quelle presenti in Europa. Una ricchezza che ci stiamo facendo scivolare tra le dita: delle 672 specie di vertebrati (576 terrestri e 96 marine) valutate dalla Lista Rossa, oltre alle sei estinte ultimamente 161 sono gravemente minacciate.
Tra queste lo squalo volpe, l'anguilla, la trota mediterranea, il grifone, l'aquila di Bonelli e l'orso bruno. Quelle in pericolo sono invece 49 in totale, tra le quali il delfino comune, il capodoglio, la tartaruga Caretta caretta e la gallina prataiola.
In occasione della Giornata mondiale della biodiversità Legambiente ha fatto il punto sulle condizioni delle specie viventi, sui fattori che determinano la perdita di biodiversità sul territorio e sui percorsi già avviati per tutelare le specie a rischio oltre agli ecosistemi che abitano.
La minaccia principale, secondo il rapporto del 2014, è infatti costituita dalla frammentazione e perdita dell'habitat (che riguarda il 20% delle specie) e l'inquinamento (circa 15%). Tra gli elementi non trascurabili vi è anche l'introduzione di specie aliene, che alterano gli ecosistemi entrando in competizione con quelle autoctone.
Diversa la situazione per quanto riguarda invece le specie marine, la cui causa di mortalità più incisiva è rappresentata dalla cattura in reti destinate alla pesca di altre specie di interesse commerciale.
Lo stato dei mari rimane uno degli elementi più allarmanti: non solamente a causa della pesca e dell'inquinamento, ma anche della pressione dei trasporti, in crescita, e dei cambiamenti climatici antropogenici. La stessa Agenzia europea dell'ambiente (EEA) ha lanciato un messaggio piuttosto incisivo, in un rapporto pubblicato a febbraio. "Il modo in cui utilizziamo il mare ora rischia di degradare molti degli ecosistemi in modo irreversibile". Un rischio che non è più uno spauracchio per incoraggiarci a prendere in mano la situazione una volta per tutte, ma è diventato ormai una certezza.
Ne sono una prova le zone morte prive di ossigeno nel mar Baltico e nel mar Nero, causate dalla presenza nell'ecosistema di dosi eccessive di sostanze nutritive (come fosforo o zolfo) provenienti anche da fonti antropiche come i fertilizzanti e gli scarichi industriali. L'accrescimento fuori misura degli organismi vegetali che hanno causato ha determinato il degrado dell'ambiente, ormai divenuto asfittico.
O ancora la distruzione dei fondali nel mare del Nord, causata dalla pratica distruttiva della pesca a strascico che ha devastato le comunità biotiche: nel caso di specie di fondamentale importanza biologica come la Posidonia oceanica, una sola passata delle reti è sufficiente a eliminare un'intera prateria.
L'urbanizzazione selvaggia, e spesso abusiva, è invece un elemento tristemente determinante per quanto concerne la perdita di biodiversità vegetale. La costruzione di infrastrutture, l'allevamento intensivo e le attività antropiche sono tra le cause principali.
Oltre all'enorme minaccia ambientale che la perdita di biodiversità comporta in quanto "capitale naturale" del pianeta, secondo i dati OCSE i danni che ne deriveranno sono stimabili, da qui al 2050, tra i 2 e i 5 trilioni di dollari l'anno. Per quanto riguarda la sola Unione Europea si parla di una perdita annuale di servizi ecosistemici che ammonta a circa 50 miliardi di euro, limitandosi solamente agli ecosistemi terrestri.
Anche sotto il profilo economico i danni sono dunque tutto fuorché trascurabili, e se non verranno presi provvedimenti incisivi vedremo sparire gran parte di quella che è una componente fondamentale per lo sviluppo sostenibile. Dicendo addio agli ecosistemi, saluteremo anche i beni e i servizi che ci forniscono: stoccaggio dell'anidride carbonica, fornitura delle materie prime e regolazione delle acque sono solo alcuni. Basta pensare che le foreste pluviali assorbono attualmente la metà delle emissioni di gas serra a livello mondiale.
Secondo Antonio Nicoletti, responsabile Legambiente per le Aree protette e la biodiversità, i parchi hanno rappresentato finora una sfida positiva e vincente. Ultimamente, tuttavia, hanno cominciato a perdere la loro spinta propulsiva. "Occorre rivitalizzare il loro ruolo, tra conservazione e servizi ecosistemici. Anche per dimostrare come le aree protette siano non solo un tassello fondamentale per raggiungere obiettivi di sviluppo economico, ma anche per ottenere il benessere psicofisico delle persone, combattere i cambiamenti climatici, salvaguardare la cultura e le tradizioni locali e raggiungere gli obiettivi di conservazione previsti dal Piano strategico per la biodiversità sottoscritto nel 2010 ad Aichi, durante la decima conferenza delle parti dell’ONU”.
Valorizzare la natura rappresenta dunque una delle prime tappe di un lungo percorso, mirato a salvaguardare una biodiversità che è il risultato, in continuo cambiamento, di 3,5 miliardi di anni di evoluzione sotto la spinta della selezione naturale. E della crescente, devastante pressione antropica sull'ambiente.
FONTE
Ogni specie svolge un ruolo importantissimo nell'ecosistema in cui vive, e la scomparsa di anche una sola può determinare alterazioni irreversibili sul breve e sul lungo termine. Maggiore è la varietà della singola specie, maggiori sono le sue probabilità di sopravvivere adattandosi alle modifiche dell'ambiente che la circonda.
A livello europeo l'Italia detiene il primato della biodiversità con oltre 67.000 specie di animali e piante, che rappresentano il 43% di quelle presenti in Europa. Una ricchezza che ci stiamo facendo scivolare tra le dita: delle 672 specie di vertebrati (576 terrestri e 96 marine) valutate dalla Lista Rossa, oltre alle sei estinte ultimamente 161 sono gravemente minacciate.
Tra queste lo squalo volpe, l'anguilla, la trota mediterranea, il grifone, l'aquila di Bonelli e l'orso bruno. Quelle in pericolo sono invece 49 in totale, tra le quali il delfino comune, il capodoglio, la tartaruga Caretta caretta e la gallina prataiola.
In occasione della Giornata mondiale della biodiversità Legambiente ha fatto il punto sulle condizioni delle specie viventi, sui fattori che determinano la perdita di biodiversità sul territorio e sui percorsi già avviati per tutelare le specie a rischio oltre agli ecosistemi che abitano.
La minaccia principale, secondo il rapporto del 2014, è infatti costituita dalla frammentazione e perdita dell'habitat (che riguarda il 20% delle specie) e l'inquinamento (circa 15%). Tra gli elementi non trascurabili vi è anche l'introduzione di specie aliene, che alterano gli ecosistemi entrando in competizione con quelle autoctone.
Diversa la situazione per quanto riguarda invece le specie marine, la cui causa di mortalità più incisiva è rappresentata dalla cattura in reti destinate alla pesca di altre specie di interesse commerciale.
Lo stato dei mari rimane uno degli elementi più allarmanti: non solamente a causa della pesca e dell'inquinamento, ma anche della pressione dei trasporti, in crescita, e dei cambiamenti climatici antropogenici. La stessa Agenzia europea dell'ambiente (EEA) ha lanciato un messaggio piuttosto incisivo, in un rapporto pubblicato a febbraio. "Il modo in cui utilizziamo il mare ora rischia di degradare molti degli ecosistemi in modo irreversibile". Un rischio che non è più uno spauracchio per incoraggiarci a prendere in mano la situazione una volta per tutte, ma è diventato ormai una certezza.
Ne sono una prova le zone morte prive di ossigeno nel mar Baltico e nel mar Nero, causate dalla presenza nell'ecosistema di dosi eccessive di sostanze nutritive (come fosforo o zolfo) provenienti anche da fonti antropiche come i fertilizzanti e gli scarichi industriali. L'accrescimento fuori misura degli organismi vegetali che hanno causato ha determinato il degrado dell'ambiente, ormai divenuto asfittico.
O ancora la distruzione dei fondali nel mare del Nord, causata dalla pratica distruttiva della pesca a strascico che ha devastato le comunità biotiche: nel caso di specie di fondamentale importanza biologica come la Posidonia oceanica, una sola passata delle reti è sufficiente a eliminare un'intera prateria.
L'urbanizzazione selvaggia, e spesso abusiva, è invece un elemento tristemente determinante per quanto concerne la perdita di biodiversità vegetale. La costruzione di infrastrutture, l'allevamento intensivo e le attività antropiche sono tra le cause principali.
Oltre all'enorme minaccia ambientale che la perdita di biodiversità comporta in quanto "capitale naturale" del pianeta, secondo i dati OCSE i danni che ne deriveranno sono stimabili, da qui al 2050, tra i 2 e i 5 trilioni di dollari l'anno. Per quanto riguarda la sola Unione Europea si parla di una perdita annuale di servizi ecosistemici che ammonta a circa 50 miliardi di euro, limitandosi solamente agli ecosistemi terrestri.
Anche sotto il profilo economico i danni sono dunque tutto fuorché trascurabili, e se non verranno presi provvedimenti incisivi vedremo sparire gran parte di quella che è una componente fondamentale per lo sviluppo sostenibile. Dicendo addio agli ecosistemi, saluteremo anche i beni e i servizi che ci forniscono: stoccaggio dell'anidride carbonica, fornitura delle materie prime e regolazione delle acque sono solo alcuni. Basta pensare che le foreste pluviali assorbono attualmente la metà delle emissioni di gas serra a livello mondiale.
Secondo Antonio Nicoletti, responsabile Legambiente per le Aree protette e la biodiversità, i parchi hanno rappresentato finora una sfida positiva e vincente. Ultimamente, tuttavia, hanno cominciato a perdere la loro spinta propulsiva. "Occorre rivitalizzare il loro ruolo, tra conservazione e servizi ecosistemici. Anche per dimostrare come le aree protette siano non solo un tassello fondamentale per raggiungere obiettivi di sviluppo economico, ma anche per ottenere il benessere psicofisico delle persone, combattere i cambiamenti climatici, salvaguardare la cultura e le tradizioni locali e raggiungere gli obiettivi di conservazione previsti dal Piano strategico per la biodiversità sottoscritto nel 2010 ad Aichi, durante la decima conferenza delle parti dell’ONU”.
Valorizzare la natura rappresenta dunque una delle prime tappe di un lungo percorso, mirato a salvaguardare una biodiversità che è il risultato, in continuo cambiamento, di 3,5 miliardi di anni di evoluzione sotto la spinta della selezione naturale. E della crescente, devastante pressione antropica sull'ambiente.
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